In che direzione vola il futuro? Ce lo spiega un esperto dell’Università di Zurigo

2022-06-25 04:10:43 By : Ms. Rose wu

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Uno speciale drone, progettato dal Robotics and Perception Group dell’Università di Zurigo, dotato di bracci ripiegabili che gli consentono di modificare in volo geometria e ingombri, ad esempio per introdursi in anfratti e rendere possibili esplorazioni di luoghi pericolosi.

Per rendere i droni capaci di volare in autonomia è all’opera un gruppo di ricerca dell’Università di Zurigo diretto da uno scienziato italiano, Davide Scaramuzza. Lo abbiamo intervistato per capire fino a che punto potranno spingersi i robot volanti.

Nel cuore dell’emergenza Covid-19 i telegiornali hanno diffuso le immagini di un cittadino di Pescara scoperto e inseguito da un drone mentre aveva pensato bene di ignorare la quarantena e di andare a correre in spiaggia. Un esempio di come questi oggetti volanti vengano spesso descritti, dalla stampa, come strumenti per il controllo del territorio e delle popolazioni ai fini dell’ordine pubblico. Ma i droni, grazie all’incredibile riduzione dei costi che li ha resi accessibili a un’ampia fetta di consumatori, sono anche entrati nelle nostre vite quotidiane come oggetti per il divertimento e per l’intrattenimento, utilizzati per il gioco o per realizzare riprese video uniche.

Sono pochi, però, i modelli dotati di capacità di volo autonomo, di solito limitata alla gestione delle fasi di decollo o di atterraggio. I droni in grado di decidere da soli la propria rotta finora si trovano solo nei laboratori di ricerca o in utilizzi sperimentali. Un altro limite è la scarsa durata delle batterie, che si traduce in una capacità operativa non superiore ai 20/30 min per i quadricotteri o multicotteri, mezzi a quattro o più eliche, lontani parenti dei droni ad ala portante utilizzati per scopi militari. Questi hanno autonomie molto lunghe, anche fino a 35 h, grazie all’impiego di motori a combustione.

Il drone “ripiegato” mentre entra in una fessura.

Con le prestazioni attuali è difficile pensare a un impiego efficace di droni a basso costo in compiti di sorveglianza prolungata e senza il controllo umano, sempre ammesso che poi, una volta superata l’emergenza Covid, ci piacerà avere tante telecamere intelligenti sopra di noi per osservarci. Ma lo sviluppo di questi oggetti è molto rapido. Per capire quali direzioni stia prendendo WE ROBOTS ha contattato uno tra i più attivi gruppi di ricerca impegnati nello sviluppo di droni autonomi. È il Robotics and Perception Group dell’Università di Zurigo, diretto da uno scienziato italiano, Davide Scaramuzza.

“Da sempre”, dice, “mi sono posto il problema dell’autonomia dei droni. Quando iniziai a occuparmene si pensava di usare il GPS come ausilio alla navigazione, con la controindicazione, però, che con segnale cattivo o assente, per esempio vicino o all’interno di edifici, il sistema di guida non funzionava. Insieme ad altri colleghi di dottorato pensammo allora di sfruttare per i droni una tecnologia che avevamo messo a punto in precedenza per le auto a guida autonoma, denominata Visual SLAM (Visual Simultaneous Localization And Mapping), cioè localizzazione e mappatura simultanea basata su telecamere”.

Una delle quattro configurazioni che il drone ripiegabile può assumere in volo.

Su quale idea si basa il suo funzionamento? “Sul fatto”, dice Scaramuzza, “di utilizzare una o più telecamere e un computer di bordo installati sul drone. Il computer analizza le immagini da cui estrae una serie di punti salienti, che noi chiamiamo ‘features’. Si tratta di punti ad alto contrasto, facilmente identificabili in immagini successive, quando il drone si muove. L’obiettivo è quindi individuare questi punti di ancoraggio, grazie ai quali è possibile ricostruire la loro posizione relativa nello spazio. Cioè, in altre parole, realizzare una vera e propria mappatura della zona di volo del drone. Simultaneamente, questi punti consentono di stimare il movimento del velivolo sui sei gradi di libertà, dall’inizio della navigazione, cioè dalla prima immagine. Localizzazione e mappatura sono due blocchi fondamentali su cui si basa ogni sistema di navigazione a guida autonoma, che sia utilizzato per un’auto, un drone o un robot spaziale”.

Perché sono importanti? “Perché una volta che il robot ha a disposizione la mappa locale di dove si trova conosce anche la sua posizione e quella degli ostacoli più vicini. A quel punto entra in gioco il terzo blocco importante per la navigazione, il ‘path planning’, o pianificazione del percorso, che genera tracciati eseguibili all’interno della mappa locale e costruiti in modo da consentire al robot di evitare gli ostacoli. Infine, un quarto blocco, quello di esecuzione della traiettoria, consente al robot di eseguire il movimento. Quindi il drone può essere autonomo nel movimento, grazie all’esecuzione in sequenza di questi quattro blocchi di navigazione: localizzazione, mappatura, path planning ed esecuzione. Mentre vola continua a ricevere segnali dall’ambiente attraverso i suoi sensori, in particolare telecamere, accelerometri o giroscopi. Quindi la sequenza dei blocchi di navigazione viene continuamente ripetuta”.

L’IMPORTANZA DEI SENSORI

Quanto sono importanti i sensori? “I sensori”, osserva Scaramuzza, “hanno subito un forte sviluppo negli ultimi tempi grazie allo sviluppo del mercato degli smartphone e dei dispositivi portatili. Sono arrivati a dimensioni molto piccole e a un altissimo livello di precisione. Possono per questo motivo essere installati anche sui droni e contribuire a mantenerli estremamente leggeri. Nel nostro laboratorio, per esempio, sviluppiamo droni tra i 20 g e i 250 g, che si distinguono da quelli commerciali, pesanti diversi chilogrammi e anche decisamente più ingombranti.

Grazie ai sensori di bordo, questi droni di nuova concezione non si servono più del GPS e possono quindi essere utilizzati con efficacia anche all’interno di ambienti chiusi. Si aprono così per loro svariati scenari di utilizzo: dall’esplorazione e soccorso dopo un terremoto alla perlustrazione di grotte, sotterranei e tunnel, fino alla ricerca e ispezione in foreste, impianti nucleari o altri luoghi complessi”.

Un altro drone progettato dal gruppo di ricerca svizzero. È dotato di telecamere “a eventi” che consentono un volo più rapido e anche di evitare eventuali ostacoli che dovessero porsi all’improvviso sulla traiettoria di volo.

Per ovviare al principale limite attuale di questi oggetti volanti, cioè la durata limitata delle batterie, che garantiscono un’autonomia operativa tra 20 e 30 min, il gruppo di studio di Scaramuzza ha iniziato a lavorare sulla navigazione veloce. Di che cosa si tratta? “Vogliamo rendere gli algoritmi di navigazione così veloci e robusti da consentire di accelerare il volo dei droni”, spiega lo scienziato italiano, “in modo da coprire un’area maggiore o svolgere un maggior numero di operazioni nel tempo limitato che hanno a disposizione. Gli algoritmi hanno bisogno di sensori, in particolare di telecamere, che forniscono una grande quantità di informazioni. Per noi è facile individuare e contestualizzare le informazioni di una foto, per esempio capire che un oggetto è un vaso e collocarlo con precisione nella nostra mappa ideale di un ambiente. Per un robot la contestualizzazione non è immediata. Ma dal 2012 a questa parte l’avvento del deep learning ha cominciato a cambiare le cose anche in questo campo. Si basa su algoritmi conosciuti da tempo, ma che ora, grazie all’impiego a fini di calcolo delle GPU, le Graphic Processing Units, possono essere fatti girare molto velocemente e anche su processori molto leggeri, anche di 60 g. Anche in questo caso, questa miniaturizzazione si deve soprattutto all’innovazione introdotta dalla diffusione degli smartphone. Quindi ora i nostri droni sono dotati di GPU su cui possono girare reti neurali superficiali (dette ‘shallow’), in grado di rendere molto più robusti gli algoritmi di navigazione”.

In che modo? “Per capirlo”, continua Scaramuzza, “bisogna sapere come avveniva la programmazione dei robot classica, prima, cioè, della diffusione su larga scala delle reti neurali profonde, iniziata nel 2012. Fino ad allora il robot costruiva la mappa, da cui estraeva il percorso realizzabile, definiva la traiettoria e la eseguiva. Ma se per esempio il sensore non era pulito, a causa di polvere o di un’impronta, facendo sì che i pixel dell’immagine non fossero tutti nitidi o a fuoco, gli algoritmi fallivano. Oggi è diverso. Certo, gli algoritmi possono sbagliare ancora, ma non così spesso. Questo perché le reti neurali consentono di calcolare il percorso più sicuro anche partendo da un’immagine non necessariamente perfetta. È un po’ quello che facciamo noi umani, che quando dobbiamo spostarci non facciamo il calcolo di una mappa metrica calcolata al millimetro. Questo per le reti neurali è possibile attraverso l’addestramento, cioè la raccolta di una grande quantità di dati, la ‘data collection’, e poi la supervisione del loro apprendimento”.

Prendiamo un caso concreto. Qualche anno fa, per un progetto finanziato dal Governo svizzero, il gruppo di Scaramuzza ha sviluppato un algoritmo per consentire ai droni di riconoscere i sentieri di un bosco per la ricerca di persone disperse. Si stima, infatti, che la maggior parte delle persone che si smarriscono in montagna resta comunque vicina ai sentieri. L’algoritmo aveva la funzione, data l’immagine della telecamera, di indicare al drone dove si trovasse il sentiero, in modo da mantenerlo sul giusto percorso. Inizialmente, spiega Scaramuzza, è stato scelto un approccio classico: “Avevamo deciso che il sentiero poteva identificarsi con un tratto di terreno piano, orizzontale, di fronte al drone, per estrarre dalle immagini della telecamera tutte le zone che avessero quella caratteristica. La soluzione però non funzionava. Era precisa soltanto il 60% delle volte. Per risolvere il problema abbiamo allora sviluppato una rete neurale che cercava di imitare il comportamento di un uomo. In che modo? Abbiamo installato tre telecamere GoPro su un elmetto e siamo andati a fare passeggiate in montagna per circa 7 km, raccogliendo circa 80.000 immagini. Una GoPro aveva una posizione frontale e guardava davanti, sul sentiero, le altre due puntavano ai lati. Quella centrale era la telecamera che ‘diceva’ alla rete neurale che quello che inquadrava era proprio il sentiero. Le due laterali invece davano l’esempio negativo. Le loro immagini erano quelle che ‘non’ contenevano il sentiero. In questo modo abbiamo insegnato alla rete neurale, sia con esempi positivi che con esempi negativi, che cosa sia e che cosa non sia un sentiero”.

Oggi bastano poche ore per istruire una rete neurale a un compito di questo genere. All’epoca della ricerca ci volle qualche giorno di calcolo, ma alla fine fu possibile definire un “concetto” di sentiero, espresso in coefficienti ricavati dalla rete neurale. “Parliamo di milioni di coefficienti”, osserva ancora Scaramuzza, “che, una volta estratti, possono essere caricati sulla rete neurale superficiale alloggiata sul drone. Il risultato di tutto questo lavoro è stato che i droni hanno imparato a riconoscere perfettamente i sentieri”.

Il drone con telecamere “a eventi” mentre evita un pallone da basket lanciato nella sua direzione. La foto è stata utilizzata anche di recente per la copertina della rivista scientifica “Science Robotics”.

Di recente su “Science Robotics” è uscito un articolo firmato dal gruppo dell’Università di Zurigo in cui si descrive un drone in grado di schivare in volo un ostacolo che gli si para davanti all’improvviso. La rivista, che è la più importante sulla ricerca robotica, ha anche dedicato la copertina a questo studio. Che cosa rende così importante questo lavoro? “Rientra nel campo delle ricerche sul volo veloce”, commenta Scaramuzza, “un tema per cui ho vinto anche un ERC, un grant da 2 milioni di euro messi a disposizione dal Consiglio Europeo della Ricerca per finanziare i nostri studi. Aumentando la velocità del volo aumentiamo la capacità dei droni di svolgere più funzioni nello stesso tempo, ma li esponiamo anche a un maggior rischio di collisioni. Nello studio pubblicato da Science Robotics abbiamo preso in considerazione il caso peggiore, quello di un uccello che attacca il drone. Non potendo ovviamente fare esperimenti con i volatili abbiamo usato oggetti lanciati al drone, in particolare palloni, per capire come riuscire a schivarli. Per farlo sono necessari sensori molto veloci, quindi con una latenza minima di percezione. Le telecamere standard hanno di solito una latenza compresa tra un millisecondo e centinaia di millisecondi. In situazioni medie, quelle che si riscontrano con un’illuminazione naturale all’interno di edifici, la loro latenza è tra i 10 e i 20 millisecondi, circa 1/100-1/50 di secondo. Sono tempi troppo lunghi per droni che si muovono a una velocità di 5-10 m/s. Anche perché, una volta ricevuta l’immagine, dobbiamo anche analizzare tutti i suoi pixel, che sono tanti”. Un’immagine VGA conta infatti circa 300.000 pixel, che andrebbero analizzati tutti.

Per risolvere il problema non si possono quindi utilizzare telecamere standard. Abbiamo invece optato per quelle cosiddette “neuromorfiche” o telecamere a eventi (“event cameras”), che sono comparse sul mercato da una decina d’anni. Come funzionano? Hanno pixel che potremmo definire intelligenti, perché ogni volta che osservano un moto inviano l’informazione sul cavo USB della telecamera al computer di bordo. Ogni singolo pixel è in grado di effettuare questa operazione. Questo è importante perché, se c’è un oggetto che si muove, non tutti i 300.000 pixel della telecamera devono inviare l’informazione che anche lo sfondo si sta muovendo. L’oggetto, se è lontano, può coprire anche solo pochi pixel, e quindi basta una mole di informazioni molto inferiore, rispetto a una telecamera tradizionale, per individuare il moto di un oggetto. Non solo. La telecamera neuromorfica è anche un sensore differenziale, dotato di pixel asincroni, che non inviano l’informazione tutti insieme, ma soltanto quando rilevano il moto. Telecamere di questo tipo hanno una latenza di frazioni di millisecondo (circa 0,1 ms). Calcolando anche il tempo di elaborazione dell’informazione da parte del computer di bordo, i droni che utilizzano telecamere neuromorfiche sono in grado di volare a velocità anche dieci volte superiori rispetto a quelli che usano telecamere standard. Parliamo in particolare di velocità relative rispetto all’oggetto che va incontro al nostro drone che possono giungere a 10 m/s, cioè 36 km/h di velocità relativa”.

Quali nuovi utilizzi si aprono, quindi? “Innanzitutto”, risponde lo scienziato, “la possibilità di volare più velocemente anche in presenza di ostacoli dinamici, oltre che stazionari. Aumentiamo quindi la velocità di esplorazione di un edificio o di un’area ignota. Le telecamere a eventi hanno anche un più alto range dinamico rispetto a quelle tradizionali, cioè un rapporto più elevato tra la luminosità più alta e più bassa che può misurare. Funzionano quindi molto meglio nel riconoscere oggetti in controluce, in situazioni in cui il sole è a bassa quota. Più volte con le auto a guida autonoma si sono riscontrati incidenti in condizioni di luce particolari, con il sole basso all’orizzonte. Ebbene, con le telecamere a eventi questo problema non si pone”.

Un altro impiego potrebbe essere quello del trasporto urbano, per esempio di provette per analisi da un sito a un altro di un complesso ospedaliero, come è già stato testato in Svizzera, a Zurigo, con un servizio di collegamento tra l’ospedale universitario e un centro analisi distante qualche chilometro. Nel suo tragitto il drone passava vicino a un asilo nido e, nel marzo 2019, in seguito a un incidente, è precipitato proprio nelle sue vicinanze. La sperimentazione è stata così sospesa. “Con il nostro gruppo”, spiega Scaramuzza, “abbiamo pensato a una soluzione a questo problema, dotando il drone, che era “cieco” e navigava quindi solo con il GPS, di un occhio, cioè di una telecamera leggera, che abbiamo sviluppato noi e può essere facilmente applicata alla parte inferiore del velivolo autonomo. La startup che abbiamo fondato da poco, Suind, lavora proprio a questo scopo. Se un drone si accorge che la batteria sta per scaricarsi o il GPS non funziona più, il nostro sistema entra in gioco e lo guida ad atterrare verso il sito più vicino che garantisce la massima sicurezza. Questo grazie al Visual SLAM e a tecnologie che riconoscono e classificano la tipologia del terreno sottostante, guidando così a vista il drone”.

Davide Scaramuzza insieme a uno dei “suoi” droni.

Sono anche in corso progetti per sviluppare droni in grado di effettuare operazioni di manipolazione in volo. “Su questo tema”, dice Scaramuzza, “lavoriamo come partner di un progetto europeo denominato Aerial Core, a cui partecipano anche centri di ricerca italiani come il Prisma Lab dell’Università Federico II di Napoli, diretto dal professor Bruno Siciliano. Il progetto consiste nello sviluppo di tecnologie cognitive che consentano a droni, dotati di sistemi di manipolazione, di ispezionare e oggetti installati su fili e tralicci dell’alta tensione e di intervenire su di essi”. Il gruppo di Bruno Siciliano sta sviluppando algoritmi per effettuare le operazioni di manipolazione, mentre il gruppo svizzero sta lavorando sui sistemi di percezione, basati su telecamere tradizionali o a eventi per individuare nell’area di intervento punti di riferimento visivi che consentano ai droni di stabilizzarsi in aria, e di mantenersi in posizione anche quando i bracci di manipolazione si muovono. “Il loro movimento, infatti”, dice ancora lo scienziato italiano, “genera forze di reazione che spostano il baricentro del robot. Quest’ultimo deve essere informato costantemente su questo spostamento”. Un altro oggetto della ricerca è il riconoscimento degli oggetti su cui vanno effettuate le manipolazioni, in genere isolanti disposti sulle linee ad alta tensione oppure dissuasori che hanno la funzione di tenere distanti gli uccelli. Questi oggetti tuttora vengono tutti installati da personale umano, con tecniche complesse e rischiose.

FOCUS 1: UN ITALIANO A ZURIGO

Davide Scaramuzza si è laureato in Ingegneria elettronica dell’informazione all’Università di Perugia nel 2004 e poi, racconta, “dopo la tesi di laurea, che aveva come argomento la robotica mobile, mi sono trasferito subito in Svizzera per un dottorato di ricerca in robotica e computer vision all’ETH di Zurigo. Poi ho ottenuto un post-dottorato alla University of Pennsylvania, a Filadelfia, nel gruppo di uno dei “guru” mondiali dei droni, Vijay Kumar (che ha un laboratorio di ricerca con il suo nome). Infine, sono diventato professore nel 2012 all’Università di Zurigo, dove lavoro tuttora”.

Come è nato il suo interesse per i droni? “Durante il dottorato lavoravo sulle auto a guida autonoma e sono stato tra i primi a impiegare le telecamere per la navigazione dei veicoli su strada. Quando Google annunciò, nel 2009, il progetto della sua Self Driving Car, mi resi conto che gli spazi per la ricerca in quel settore si sarebbero ristretti e pensai quindi che fosse una buona strategia concentrarmi su qualcosa di diverso, di più esotico. Iniziai così a dedicarmi ai droni. Era anche il momento in cui cominciavano a comparire sul mercato i primi quadricotteri commerciali, che offrivano qualcosa di nuovo rispetto agli elicotteri giocattolo a cui fino a quel momento eravamo abituati. In particolare, erano facili da controllare e non avevano parti meccaniche in movimento. I droni offrivano quindi interessanti possibilità di sviluppo anche se, all’epoca, non erano autonomi. Funzionavano solo con controllo remoto”. Il lavoro fatto in seguito da Scaramuzza e dal suo gruppo consiste proprio nel trovare soluzioni a questo limite, e rendere i droni veri e propri robot volanti, in grado di muoversi autonomamente nell’ambiente.

Durante un’emergenza sanitaria come quella provocata da Covid-19 quale può essere il ruolo degli automi? “I robot”, dice Davide Scaramuzza, “possono essere utilissimi in situazioni di emergenza non solo perché possono operare autonomamente, ma anche per le loro funzionalità di telepresenza, che consentono di tenere gli operatori distanti dai malati infetti. Il problema è che hanno una bassa manualità. Oltre a consegnare qualche oggetto e spostarsi con precisione tra due punti non hanno molte altre capacità”.

I droni però potrebbero rendersi più utili. “Per esempio”, suggerisce lo scienziato italiano, “controllare aree in maniera autonoma. Bisogna però, per consentirlo, anche modificare la legislazione, che per esempio in Italia non permette il volo autonomo, ma solo quello teleguidato. Con il volo a GPS la tecnologia esiste, tenuta comunque conto la bassa durata delle batterie. Un’alternativa possono essere i droni ad ala fissa, che sono più efficienti. Sfruttano la portanza dell’aria e possono volare anche 2 o 3 h”. Scaramuzza cita due esempi di due startup svizzere, Suind, nata dal suo laboratorio, e Dronistics di Losanna, che ora si sono unite per sviluppare un drone dimostrativo, capace di portare cibo, medicinali o medicine a persone in quarantena. Parliamo di droni in grado di effettuare consegna con un’altissima precisione, a livello di centimetri, e di arrivare quindi sul balcone di casa delle persone in quarantena. Le startup sono piccole e nate da poco, quindi non è possibile pensare a soluzioni su larga scala, ma l’intento è dimostrare l’efficacia della soluzione in vista di possibili impieghi futuri.

FOCUS 3: UN GRUPPO AGILE E AGGUERRITO

Il Robotics and Perception Group dell’Università di Zurigo diretto da Davide Scaramuzza è composto da 15 persone, tra cui 9 dottorandi, 3 postdoc e 2 ingegneri. È stato il primo al mondo a impegnarsi nell’ambito della navigazione autonoma di droni basata sulla visione, anche se molti altri laboratori hanno iniziato a indagare in questo campo. “Da tre anni a questa parte”, dice l’esperto italiano, “per mantenere la nostra leadership abbiamo iniziato a lavorare sulla navigazione veloce. Stiamo spingendo molto anche sullo sviluppo per competizioni che sono molto seguite nel mondo degli appassionati, quelle del drone racing, diffuse ovunque, anche in Italia, e con premi in denaro molto consistenti. Noi vogliamo sviluppare un drone autonomo in grado di competere in queste gare, dove i velivoli sono teleguidati, e di vincere. Al momento è un obiettivo molto lontano, perché osservando le competizioni ci si rende conto di quanto la conduzione umana sia di gran lunga superiore a quella oggi ottenibile con gli algoritmi e con l’intelligenza artificiale”. L’idea, che è stata anche premiata dall’ERC con un grant assegnato a Scaramuzza, è realizzare un AlphaDrone, idealmente modellato su AlphaGo di Google, il sistema di intelligenza artificiale che ha battuto i più grandi campioni del gioco coreano Go. “Entro 5 anni vogliamo cioè realizzare un drone autonomo in grado di battere il più forte pilota umano. Un algoritmo in grado di raggiungere un risultato simile sarà quindi anche capace di condurre un robot volante in missioni di soccorso in scenari complessi”.

Le competizioni sono già iniziate. Nel 2018 il gruppo ha vinto la terza edizione della IROS Autonomous Drone Racing Competition (gara internazionale di soli droni autonomi), stabilendo il record mondiale, attraversando 9 cancelli (di cui uno mobile) in meno di 30 secondi. Un trionfo di cui ha parlato anche il New York Times.

Ispirati da questa competizione, la competizione internazionale Drone Racing League (che ogni anno organizza le gare di droni telecomandati da umani) e la Lockheed Martin nel 2019 hanno organizzato la prima edizione della AlphaPilot Competition, una gara internazionale di droni autonomi poi ribattezzata AIRR (AI Robotic Racing), alla quale il team svizzero si è piazzato secondo. ©WE ROBOTS

Un drone del Robotics and Perception Group in esplorazione all’interno dell’Università di Zurigo.

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